Che cos’è un USO?

ufo-oNel riportare le notizie di questa sezione del sito, ci siamo in gran parte riferiti alle notizie e alle idee riportate da:
1) Roberto Pinotti in “UFO: visitatori da altrove“, Rizzoli, 1990;
2) Ivan T. Sanderson in “Invisible residents: a disquisition upon certain matters maritime, and the possibility of intelligent life under the waters of the Earth“;
3) notizie espresse in tal senso dai seguenti ricercatori: John Keel, Preston Dennet, Bill Birnes, Stanton Friedman, Philip Mantle, Bruce Maccabee, Carl Feindt, Vladimir Ajaja, Ed Walters e Marko Princevac;
4) si sono poi consultati numerosi siti stranieri come http://ufoexperiences.blogspot.com e http://www.ufoinfo.com, http://www.ufoevidence.org, http://www.ufon.org.uk e quasi tutti i più noti siti italiani tra i quali segnaliamo: http://www.ufologia.net e www.chupacabramania.com.

Il nostro pianeta

Gli U.S.O. o USO, (USOs in inglese, al plurale) rappresentano una spettacolare manifestazione della fenomenologia ufologica che, però, assai di rado viene riportata. Anche se non ce ne rendiamo conto, poiché viviamo sulla terraferma, il nostro pianeta è ricoperto per circa il 75% di acqua; infatti, a fronte di 509.950.715 kmq di superficie complessiva solamente 148.822.000 kmq sono occupati dalle terre emerse. Essendo dunque questa la situazione reale, non è difficile immaginare che le manifestazioni ufologiche nelle acque degli oceani, dei mari, dei laghi e dei grandi fiumi siano assai comuni e, comunque, molto più comuni di quanto non si creda.

La civiltà sottomarina

Il biologo marino Ivan T. Sanderson, fondatore della S.I.T.U. ( Society for Investigation of The Unexplainednel ), un’associazione impegnata nell’esame di tutto quanto connesso agli UFO e agli USO, nel 1970 formulò una teoria sugli alieni o extraterrestri. Egli considerò possibile che sotto le acque, in modo particolare quelle profonde degli oceani, potesse vivere almeno una razza intelligente, che discenderebbe direttamente da quelle prime forme di vita che non passarono mai sulla terraferma e che, perciò, sarebbe assai più antica della nostra civiltà umana.

Scoperta italiana fra gli abissi marini

A tal proposito, considerando le sole forme di vita marina non intelligente, può essere utile ricordare una storia tutta italiana del 1984, allorquando un gruppo di scienziati dell’Università di Milano individuò nel Mar Mediterraneo, a sud-est della Sicilia e a 100 miglia nautiche dalle coste libiche, un qualcosa di assolutamente unico ed incredibile.
Laggiù, tra gli abissi neri come la pece, alla profondità di 3.000 metri, c’era una grande bolla di acqua racchiusa in uno spessore di 2,5 metri, dalla salinità elevatissima che presentava un rapporto del 400 per mille a fronte di una media del 40 per mille. Per questo motivo, essa venne vista come “del tutto separata dalle acque sovrastanti” e fu battezzata col nome di Lago Bannock. Iniziò, quindi, una meticolosa indagine volta a comprendere le caratteristiche di quella misteriosa zona sottomarina ed a controllare l’eventuale presenza di una qualche, assai improbabile, forma di vita estremofila, date le condizioni di partenza: salinità dieci volte superiore alla media e pressione elevatissima.
Così avvenne l’incredibile! Il folto gruppo di ricercatori italiani (studiosi dell’Università di Milano Bicocca, guidati dal prof. Daniele Daffonchio della facoltà di Agraria, ricercatori dell’Istituto per l’Ambiente Marino del C.N.R. di Messina, tecnici della ditta Tecnomare di Venezia, del gruppo ENI ), unitamente ad altri otto gruppi europei, tutti inseriti nel progetto europeo denominato “BIODEEP”, a sua volta coordinato da scienziati italiani del Consorzio Interuniversitario per le Scienze del Mare, utilizzando il veicolo sottomarino “Modus-Scipack”, della Tecnomare suddetta, collegato via cavo alla nave oceanografica Urania, iniziò a prelevare campioni e sedimenti. Essi poterono così scoprire, attraverso l’analisi al microscopio, la presenza di forme di vita mai trovate altrove: un’autentica colonia di batteri, stranissima e assai complessa. I primi risultati di tale scoperta sono stati divulgati alla stampa nella primavera del 2006.

Teoria di John Keel

Anche John Keel ha sempre sostenuto l’idea che possano veramente esistere delle basi sottomarine sulla Terra, in modo particolare nelle vicinanze del Circolo Polare Artico e in diverse zone del Sud America ma non attribuisce alcuna paternità agli alieni: egli pensa semplicemente che una grande potenza mondiale, come potrebbe esserlo gli Stati Uniti, stia sviluppando un’aviazione ed una marina clandestine. A tal proposito, quando affronteremo il tema dei falsi USO, ci renderemo conto di quanto sospetto possa essere fondato.

Le sigle identificative: usologia oppure osnilogia

La sigla USO sta a significare sia “Unidentified Submerged Object“, ovvero “Oggetto immerso non identificato” che “Unidentified Submarine Object” cioè “Oggetto sottomarino non identificato”.
Va però precisato che tale sigla, almeno per noi italiani, andrebbe cambiata in OVSNI, ovvero Oggetto Volante Sottomarino Non Identificato, parafrasando la più nota OVNI (Oggetto Volante Non Identificato), che è la sigla con la quale lo Stato Maggiore della nostra Aeronautica Militare Italiana identifica gli UFO.
Anche se il termine non ha ancora preso ben piede, la materia che li studia potrebbe, a buon diritto, chiamarsi sia col termine internazionale di “Usologia” che con quello più nazionale di “Osnilogia”.
Tuttavia, è bene ricordare che l’origine dell’acronimo “USO” non è da attribuire agli ufologi bensì a quei numerosissimi giornalisti anglosassoni che riferirono dell’incredibile vicenda accaduta nel profondissimo fiordo norvegese Sogne; qui, infatti, il giorno 11 novembre 1972, alcune unità della locale marina militare individuarono un oggetto sottomarino che tenne in scacco un’intera flotta militare, rinforzata da un numero incredibile di mezzi aerei specializzati nella caccia ai sottomarini ma dopo dieci giorni fece perdere definitivamente ogni traccia, tra lo stupore generale e le più sofisticate apparecchiature di ricerca non riuscirono più a rintracciarlo.

La forma, le dimensioni ed il comportamento

Questi oggetti volanti sono assimilabili in tutto e per tutto ai ben più noti UFO. La loro superficie esterna appare per lo più costituita di materiale simile al metallo, con tonalità che comprendono tutte le gradazioni del colore grigio. La loro forma è per lo più a sfera o ad ovoide ma sono moltissime le segnalazioni della forma a sigaro o a cilindro. Presentano dimensioni di ogni tipo in quanto si va dalle segnalazioni di piccoli sferoidi, assai simili a sonde esplorative del diametro di circa un metro, a gigantesche astronavi anche superiori ai 500 metri di diametro o di lunghezza.
Questi mezzi volanti non identificati manifestano la loro presenza in diversi modi: immobili sull’acqua, in navigazione o di poco sopra la superficie, come gli aliscafi, o sulla superficie o appena sotto di essa o a notevoli profondità, fermi sui fondali, in immersione o in emersione sia a velocità modeste che sostenute.
Inoltre, è stato anche osservato che dopo la fase di emersione, alcuni si sono fermati ad una bassa quota, hanno acceso luci ulteriori, hanno iniziato o a girare gradualmente attorno al proprio asse o ad orbitare su circonferenze concentriche che li hanno condotti a quote superiori e da lì sono poi sfrecciati via seguendo o una direzione parallela al terreno o lievemente inclinata verso l’alto o verticale.

I ricercatori

Il ricercatore Bill Birnes, nel documentario “Deep Sea UFOs” trasmesso negli Stati Uniti il 16 luglio 2006 ma solo sui circuiti del programma televisivo “The History Channel”, dopo aver raccolto diverse testimonianze hanno dichiarato che un comportamento tipico degli USOs è quello di aprirsi in tante parti e lasciare partire un grande numero di velivoli più piccoli.

Nello stesso documentario Philip Mantle ha dichiarato che questi USO emergono semplicemente dall’acqua e se ne spariscono. Ha poi ricordato come lo stesso leader sovietico Nikita Khrushchev fosse rimasto assai impressionato dal rapporto che aveva ordinato di redigere alla sua rappresentativa diplomatica a Buenos Aires, la quale aveva ricevuto il delicatissimo incarico di scoprire il più possibile sull’argomento. Poiché gli scettici gli suggerirono che, in clima di guerra fredda, avrebbe potuto benissimo trattarsi di sottomarini lanciasiluri, egli rispose assai argutamente ricordando come, nel 1966 non fosse possibile gestire un fuoco simultaneo di sei o più siluri.

Il ricercatore Bruce Maccabee ricordando l’USO di Porto Rico del marzo 1963, che viaggiava a 150 nodi, cioè circa 280 km/h e ad una profondità di 20.000 (ventimila) piedi, ha dichiarato che il punto critico per un sommergibile si aggira attorno ai 7.000 piedi.

Il ricercatore Stanton Friedman ha fatto notare che quando viene localizzato un UFO in cielo la gente ne fa un racconto o un rapporto alle forze dell’ordine ma quando viene localizzato un USO o nelle profondità marine o sulla superficie delle acque, soprattutto grazie al monitoraggio delle imbarcazioni e dei loro occupanti, se ne fa un rapporto di cui non impara niente nessuno oppure, se qualcosa trapela, arriva puntuale il servizio televisivo che mostra la solita mongolfiera sperimentale della Marina Militare che, ovviamente, è la causa possibile dell’avvistamento di un UFO o di un USO.

Un altro importante ricercatore, Carl Feindt, nello stesso documentario ha ricordato il “Diario di Cristoforo Colombo” nel quale il nostro navigatore sarebbe stato testimone dell’avvistamento di un oggetto che, sulla linea dell’orizzonte, eseguiva movimenti ondeggianti o tremolanti, paragonati dal Nostro al tremolio di una candele che, però, sorge e tramonta. A tal proposito, qualcuno ha sostenuto che avrebbe potuto trattarsi dei fuochi di un accampamento ma la spiegazione è risultata risibile in quanto la costa era ancora assai lontana. Lo stesso ricercatore ha poi aggiunto che allorquando gli USO devono penetrare una barriera di ghiaccio, per entrare nelle profondità polari, fondono letteralmente la lastra al loro passaggio, lasciando un semplice buco e non si comportano, quindi, come farebbe un meteorite che lancerebbe i frammenti gelati in tutte le direzioni.

Problemi tecnici delle basi

Quasi trent’anni fa, sul mitico primo numero della  rivista “Solaris” , del 10 gennaio 1978, venne affrontato a grandi linee il problema di questi inquietanti mezzi volanti, con un interessante articolo privo però del nome dell’estensore. Riportiamo in estrema sintesi i risvolti principali riferiti agli aspetti tecnici che riguardano mezzi che entrano in contatto con l’acqua, sottolineando come siano ancora attuali quelle riflessioni.
Nel corso dei secoli l’uomo ha imparato che le esigenze logistiche e strategiche legate ai lunghi spostamenti si possono affrontare predisponendo delle basi lungo il percorso ed ha perciò costruito scali aeroportuali e scali aeronavali.
Sul piano militare questa esigenza è stata risolta con la costruzione di gigantesche portaerei che, essendo per loro natura mobili, meglio conciliano la gestione della lontananza e del tempo.
Sul piano ufologico, possiamo invece solo immaginare che per un’eventuale civiltà extraterrestre si pongano i problemi della segretezza e della inaccessibilità dei luoghi che sono stati scelti come “campi operativi di base” per esplorare il nostro pianeta.
Se così fosse, avrebbe senso ritenere che la loro tecnologia abbia lavorato sia nella direzione di rendere operativi i loro velivoli nell’aria come nell’acqua sia nella necessità di costruirsi vere e proprie basi sottomarine.

Problemi tecnici dell’impatto

Facendo riferimento alla moltitudine di avvistamenti avutisi nel corso dei secoli, si deve ammettere che i loro ingegneri aeronautici, se così li possiamo definire, abbiano brillantemente risolto problemi che, almeno fino a pochi anni or sono, erano letteralmente proibitivi ma che, dopo aver saputo degli avanzati studi tecnici del “Cormorant Projec” ci lasciano sbalorditi di fronte all’ingegno umano.
Dal punto di vista tecnico, un aeromobile che viaggiasse alla velocità di spostamento degli USO si schianterebbe o riceverebbe un danno gravissimo al contatto dell’acqua che, a quel punto, si trasformerebbe in un’autentica barriera d’acciaio.
Tuttavia, qualora la velocità di impatto con la superficie liquida fosse estremamente bassa, l’angolo di incidenza avesse un’adeguata inclinazione e la struttura del velivolo lo permettesse, aumenterebbe enormemente la possibilità di ridurre lo “splash down” dello schianto ad un valore prossimo allo zero, come hanno dimostrato i tecnici della Lokheed Martin con la realizzazione del “Cormorant Project” suddetto.

Problemi tecnici della pressione

Superato però il problema dell’impatto, si evidenzia il problema della pressione dell’acqua, che sembra però essere stato superato dagl’ingegneri della Lokheed Martin ma che, al tempo dell’estensione del suddetto articolo, era ancora lungi dall’esserlo e si cercavano soluzioni nella forme arrotondate e sferiche in quanto sembravano le più adatte a resistere alla pressione sottomarina. Ovviamente, si guardava anche con molto interesse ai progressi ottenuti con la costruzione delle prime basi subacquee, nelle quali era stato sufficiente creare una pressione uguale a quella atmosferica, che furono realizzate in America e in Francia, sulla grande spinta impressa dagli studi e dalle ricerche del professor J. Cousteau. Della tecnica del Cormorant Project parleremo nell’apposita sezione degli Usoinganni, inserita nel capitolo dei “Falsi USO”.

Sistema propulsivo degli USO

In considerazione del fatto che spesso si notano enormi colonne d’acqua sollevarsi ad altezze anche di centinaia di metri nonché disturbi importanti alla apparecchiature elettroniche a bordo delle imbarcazioni (radio, radar, ecoscandagli e bussole per la navigazione), alcuni ricercatori pensano che il sistema propulsivo degli USO  potrebbe essere basato sull’unione dei princìpi “elettrogravitazionale ed  elettrodinamico quantistico”.
Secondo tale teoria, queste due forme energetiche consentirebbero ad un corpo materiale di penetrare e di procedere nell’acqua  senza produrre perturbazioni di alcun tipo  ovvero senza variare l’assetto posizionale della massa d’acqua. Teoricamente, la  propulsione elettromagnetica  potrebbe permettere ai sottomarini di viaggiare ad un’elevata velocità subacquea in quanto un campo EM, generato attorno ad un velivolo, potrebbe ridurre la resistenza aerodinamica dei fluidi gassosi o liquidi e in tal modo si renderebbero possibili manovre ritenute altrimenti impossibili, ad esempio, ad un normale sottomarino.
Sembra che la Marina Statunitense, in seguito ad un esperimento realizzato nel 1960 su di un sottomarino EM (EM Sub), abbia ottenuto un incredibile successo in tal senso ma, ovviamente, non vi sono prove.
Nel 1988 il famoso fotografo Ed Walters, catturò l’immagine di un USO mentre stava facendo fotografie nella zona superiore del Gulf Breeze, mentre l’oggetto stava creando una specie di tromba d’acqua o tromba marina. Questo fatto ha indotto alcuni ricercatori a ritenere che gli USO possano utilizzare l’acqua come una fonte di energia.
Il prof. Marko Princevac, dell’Università californiana di Riverside, ha dimostrato in forma sperimentale che è possibile la propulsione supersonica subacquea. Egli è poi riuscito a dimostrare che un oggetto dalla linea aerodinamica potrebbe muoversi sottacqua meglio che un oggetto spigoloso o rassomigliante vagamente ad un cubo. I suoi esperimenti hanno poi dimostrato che mentre un aereo che viaggia a Mach 1 richiede 15.000 cavalli-vapore di energia, un sottomarino che viaggiasse alla stessa velocità avrebbe bisogno di una potenza settanta volte superiore, ovvero oltre un milione di cavalli-vapore, che è un valore davvero enorme da raggiungere.
Per queste ragioni possiamo affermare che, al momento in cui scriviamo l’articolo (4 luglio 2007), non esiste una tecnologia terrestre in grado di far lavorare sotto la superficie del mare un mezzo che possa raggiungere la velocità anche solo di un modesto aereo commerciale.
Attualmente, sappiamo che un sottomarino nucleare d’attacco, della classe Los Angeles, varato nel 1974, lungo 110 metri, alto 10 e largo altrettanti, con oltre un centinaio di persone a bordo, si può immergere fino a 3.000 metri e riesce a sviluppare una  velocità di 32 nodi, corrispondenti a 32 miglia marine all’ora (un miglio marino equivale a 1.852 metri) che, a loro volta, corrispondono alla “pazzesca” velocità massima di quasi… 60 km all’ora su terra. Sappiamo anche che i sottomarini nucleari di ultima generazione sono in grado di raggiungere i 45 nodi, cioè la velocità di quasi 85 km/h. Tale velocità, però, se rapportata agli USO segnalati a Porto Rico e nel Mare del Nord nel lontanissimo 1963, ci da un’idea approssimativa del differenza tecnologica tra noi e i nostri fratelli superiori.